Il pH, ossia il grado di acidità o alcalinità di un impasto, è un parametro fondamentale da tenere sotto stretto controllo quando si preparano prodotti da forno lievitati come pane, pizza, focacce, brioche e tanto altro. Il pH influisce notevolmente sulla lievitazione e quindi sul volume finale, sulla sofficità, sulla fragranza e sulla conservabilità del prodotto finito. misurare e gestire correttamente il pH dell’impasto è indispensabile per ottenere lievitati ben gonfi, morbidi e fragranti. Il pH negli impasti per prodotti da forno lievitati dipende da diversi fattori: – Ingredienti utilizzati: farine con elevato contenuto proteico tendono ad essere più acide, così come i liquidi acidi come il latte e lo yogurt abbassano il pH. – Metodo di lavorazione dell’impasto: impasti lavorati a lungo o sottoposti a ripetute pieghe sviluppano acidità, abbassando il pH. – Presenza di acidi organici: gli acidi prodotti naturalmente dai latticini, dalla frutta e dai lieviti, acidificano l’impasto. – Fermentazione degli amidi: durante la lievitazione gli amidi vengono scissi in zuccheri semplici, andando incontro a fermentazione acida. – Fermentazione dei batteri lattici: i batteri lattici trasformano gli zuccheri in acido lattico, acidificando l’impasto. – Ossidazione dei lipidi: i grassi contenuti nell’impasto possono ossidarsi e formare acidi organici. – Lievito e sale: il lievito tende a rendere l’impasto più acido, il sale ha effetto alcalinizzante. – Metodo di lievitazione: lunghe lievitazioni a basse temperature creano un ambiente più acido. Quando misurare il pH negli impasti Il pH va misurato in due momenti precisi: subito dopo aver amalgamato tutti gli ingredienti, ottenendo quella che in gergo si chiama la “massa d’impasto”, e poi nuovamente nel prodotto finito e cotto, preferibilmente a livello della mollica. Il primo controllo del pH ci permette di verificare l’acidità iniziale dell’impasto e, se necessario, di intervenire aggiungendo acidi o alcali per riportarlo nel range ottimale. Il secondo controllo nel prodotto cotto serve invece a capire come il pH si è evoluto durante la lievitazione e la cottura, fornendoci preziose informazioni per migliorare il processo. Come misurare il pH dell’impasto Per misurare il pH dell’impasto appena amalgamato, il metodo migliore è utilizzare un pratico pH-metro da cucina, facile da reperire e da usare. In alternativa, si possono utilizzare delle apposite cartine tornasole per alimenti, che cambiano colore a seconda del pH. Nel prodotto finito, la misura va eseguita sulla mollica, che deve essere tritata finemente e mescolata con poca acqua distillata per ottenere una soluzione liquida su cui poter immergere la sonda del pH-metro o la cartina tornasole. È importante che la misura avvenga sempre a temperatura ambiente. Qual è il pH ideale negli impasti? Ma vediamo quali sono i valori “giusti” di pH a cui dobbiamo mirare. Per una buona lievitazione, con una temperatura ambiente sui 25°C, il pH ottimale per l’impasto si aggira intorno a 5-5,5 al massimo 6. Valori superiori a 6,5 rallentano notevolmente l’attività dei lieviti, mentre sotto 4,5 i lieviti tendono a morire e la lievitazione ne risente pesantemente. Anche la temperatura incide parecchio: con 15°C di ambiente il pH ideale scende a 5-5,5, mentre a 30°C può salire fino a 6-6,5. Analizziamo più nel dettaglio le conseguenze: pH troppo acido (sotto 5) – I lieviti vengono inibiti e non riescono a svolgere bene la loro azione lievitante. L’impasto si gonfierà poco. – Le proteine del glutine non coagulano bene, assumendo una consistenza appiccicosa e poco elastica. L’impasto risulterà appiccicoso. – I composti responsabili del sapore e dell’aroma non si sviluppano appieno. Il prodotto avrà un sapore piatto. – C’è un maggiore sviluppo di batteri acidificanti che accelerano il deterioramento dell’impasto. pH troppo alcalino (sopra 6.5) – L’attività dei lieviti rallenta, così la lievitazione è più lenta. L’impasto si gonfia con difficoltà. – Le proteine del glutine si aggregano troppo fra loro. L’impasto perde elasticità e tende a diventare gummoso. – Anche in questo caso aroma e sapore risultano attenuati. – La solubilità delle proteine è ridotta. L’impasto assorbe meno acqua, risultando consistente e duro. – La conservabilità è minore rispetto a un pH ottimale tra 5 e 6. La temperatura “ideale” per il ph La temperatura è un fattore molto importante da considerare quando si misura e si gestisce il pH negli impasti lievitati. Ecco spiegato perché: – L’attività dei lieviti è influenzata dalla temperatura. A temperature più alte i lieviti lavorano più velocemente, a temperature più basse rallentano. – Di conseguenza, il pH ottimale cambia a seconda della temperatura di lievitazione. Con impasti a 15°C il pH ideale è sui 5-5,5, a 25°C sale a 5,5-6 e a 30°C arriva a 6-6,5. – Gli enzimi del lievito che scompongono amidi e proteine in zuccheri fermentescibili lavorano meglio a temperature tra 25-30°C. Sotto i 10°C la loro attività è molto ridotta. – Le proteine del glutine che conferiscono tenacità ed elasticità all’impasto coagulano meglio a temperature fra 25-30°C. Sopra i 30°C tendono a coagulare troppo. – Gli acidi organici che contribuiscono al sapore vengono prodotti maggiormente tra 25-30°C. Temperature più alte o più basse ne limitano la produzione e il sapore risulta piatto. – Anche la velocità di molte reazioni chimiche che avvengono durante l’impasto e la lievitazione aumenta al crescere della temperatura. Per tutti questi motivi monitorare temperatura e pH in parallelo è indispensabile per una buona lievitazione e per prodotti finali ottimali. Come correggere il pH dell’impasto Qualora rilevassimo un pH troppo acido o troppo alcalino, esistono diversi metodi per riportarlo nel range ottimale e salvaguardare lievitazione e qualità del prodotto finito. Per aumentare il pH e rendere l’impasto meno acido, possiamo aggiungere bicarbonato o lievito chimico. Viceversa, per abbassare un pH troppo alcalino e acidificare la massa, sono indicati acidi come l’aceto, il latticello o il lievito acido. Attenzione però a non esagerare con le quantità, poco basta. In conclusione, monitorare e gestire correttamente il pH è un passaggio fondamentale per ottenere dai nostri impasti lievitati degni di un vero artigiano, dalla sofficità e fragranza impareggiabili. Armandoci di pH-metro e cartine tornasole possiamo finalmente ottimizzare i nostri impasti ed esaltarne al massimo le potenzialità.
Le crepes
hanno origini molto antiche, risalendo probabilmente all’epoca dei Romani. Sembra che già ai tempi dell’Impero romano si preparassero crêpes simili a quelle odierne, a base di farina, acqua e uova. In Francia le crepes si diffusero nel Medioevo: i monaci, abili cuochi, le cucinavano negli scriptorium come spuntino durante il lavoro di copiatura dei testi. Nel tempo divennero un piatto povero ma nutriente per le popolazioni contadine. Fu nel XVI secolo che le crepes assunsero la forma sottile e rotonda che ancora oggi le contraddistingue. Nacque in quel periodo anche la tradizione di consumarle durante il periodo di Carnevale. Molto apprezzate dalla nobiltà francese nel XVII-XVIII secolo, le crepes iniziarono ad essere farcite in modo più ricercato, con ingredienti come panna, uova, frutta. In epoca contemporanea si diffusero poi in tutta Europa grazie agli spostamenti della popolazione. Approdarono infine nel Nuovo Mondo portate dagli emigranti francesi, divenendo un dolce tipico del Nord America. Oggi le crepes sono diffuse in tutto il mondo e si presentano in numerose varianti regionali, ma restano profondamente legate alla tradizione culinaria d’Oltralpe, dove sono tuttora considerate uno dei simboli della gastronomia francese. Ecco la ricetta per le mie crepes: Ingredienti: – 125g di farina – 250ml di latte – 2 uova – 1 cucchiaio di zucchero – 1 pizzico di sale – 40g di burro morbido – Burro per ungere la padella Procedimento: 1. Setacciare farina, zucchero e sale in una ciotola 1. Aggiungere uova e burro morbido e lavorare gli ingredienti 1. Versare gradualmente il latte mescolando 1. Coprire e far riposare l’impasto 30 min 1. Scaldare la padella e ungere con burro 1. Cuocere le crepes da entrambi i lati 1. Farle e gustarle calde! Con l’aggiunta del burro l’impasto risulta più cremoso e gustoso. Provate questa nuova versione e fatemi sapere cosa ne pensate! Buon appetito!
Farina Manitoba: origini, caratteristiche e utilizzi della farina forte del Nord America
La farina Manitoba, soprannominata anche farina americana, si ottiene dalla macinazione di svariate tipologie di frumento tenero coltivato nelle aree del Nord America, in particolare nella regione Manitoba, una provincia del Canada da cui deriva il nome. Si tratta di un grano molto potente, capace di resistere alle basse temperature, con un’elevata percentuale di proteine. Cosa s’intende per forza della farina? Quando si nomina la “forza della farina”, si allude alla capacità della farina stessa di incorporare i liquidi durante l’impastamento e trattenere l’anidride carbonica durante la lievitazione. Il suo valore dipende dal contenuto proteico, nello specifico di 2 tipi: la gliadina e la glutenina che a contatto con l’acqua e per azione meccanica, reagiscono formando un complesso proteico chiamato glutine. Curiosità: la farina Manitoba deve il suo nome al territorio canadese del Manitoba, zona dal clima rigidissimo dove cresce un grano duro e resistente! Che cosa s’intende per farine “FORTI” o “DEBOLI”? E per quali usi si prestano queste farine? Il grado di forza di una farina viene determinato in laboratorio mediante uno strumento meccanico denominato alveografo di Chopin, che lavora sull’impasto. Dai dati di questi grafici si ottengono le seguenti informazioni sull’impasto: P: che indica l’indice di tenacità/resistenza dell’impasto L: che indica l’indice di elasticità dell’impasto W: che indica la forza della farina o detta anche energia necessaria per rompere l’impasto Le farine si suddividono in farine “forti” e farine “deboli”. Una farina definita “forte” o farina di forza, è una farina che possiede un elevato contenuto di glutine. Questa tipologia di farina assorbe alte percentuali di liquidi e trattiene più anidride carbonica. L’impasto risulta così più elastico, tenace e notevolmente resistente alla lievitazione grazie alla formazione di una maglia glutinica solida. L’uso di queste farine con alto valore W è ideale per impasti che richiedono una lunga lievitazione, evitando che l’impasto si afflosci e sgonfi. Alcuni dei prodotti realizzabili con queste farine sono: il pane, il pan brioche, il panettone, il pandoro, le colombe che risulteranno soffici e ben alveolati. Le farine definite “deboli”, al contrario assorbono meno liquidi, formando una rete glutinica ridotta che durante la lievitazione trattiene minore anidride carbonica. Avendo una maglia glutinica fragile, non avrà molta tenuta e di conseguenza se lavorata eccessivamente perderà la sua struttura e l’impasto risulterà liquido e appiccicoso. Le farine con basso valore W trovano il loro uso ideale nelle ricette di prodotti che necessitano di poca lievitazione e che conferiscono friabilità al prodotto come ad esempio: biscotti, torte, pasta frolla, focacce, grissini e molto altro. Come identificare la forza di una farina? Non esiste un metodo preciso se non la valutazione con l’alveografo di Chopin (di cui abbiamo parlato in precedenza). L’unico modo per riconoscere se una farina è forte o debole, è leggere il valore di W riportato sulla confezione o sulla scheda tecnica della farina. Un W elevato (sopra 250-300) indicherà una farina potente, un W basso (da 200 in giù), al contrario, una farina debole. Nella via di mezzo le farine di forza media. Che tipo di farina è la Manitoba? Per l’elevata quantità di glutine presente, la Manitoba viene definita una “farina robusta”, utilizzata per aumentare a livello di forza, tenacità ed elasticità altri tipi di farina più fragili, ma soprattutto per realizzare impasti che richiedono una lunga lievitazione, rendendo inoltre i prodotti molto più morbidi e soffici. Al giorno d’oggi si indicano con il termine Manitoba tutte le farine con un valore W maggiore di 360, qualsiasi sia l’area di produzione e la varietà di grano impiegata. I valori delle farine vengono classificati nel seguente modo: BASE: fino a W 200 – ideale per pizza in teglia, pane comune ad impasto diretto, frolla e biscotti, grissini e cracker; MEDIA: fino a W 280 – indicata per tipologie di pane particolari come baguettes e rosette, panini all’olio, pizza in pala e per la sfoglia; ROBUSTA: fino a W 360 – utilizzata per impasti lievitati che necessitano di un’alta idratazione come brioche e croissant, per panettoni, pandori e colombe, pane per hamburger e pizza a lunga lievitazione. Ideale anche per il rinfresco del lievito madre e impasti con biga e poolish.
L’impasto con biga: storia e consigli per ottenere una pizza leggera e digeribile
La biga, detta anche pasta acida o pasta madre, è un prezioso alleato per ottenere impasti leggeri, digeribili e dalla migliore conservabilità. Scopriamo qualcosa sulla sua storia e come utilizzarla al meglio. Le origini della biga risalgono all’antica Roma: i panettieri avevano notato che facendo riposare una parte dell’impasto, questo sviluppava acidità e aiutava a lievitare il pane. Oggi la biga viene utilizzata soprattutto per pizza, focacce e panificati. Per realizzare una biga si mescolano farina, acqua e lievito, facendola riposare per 8-12 ore. La biga viene poi aggiunta all’impasto finale. Vediamo come utilizzarla con un esempio. Per 1 kg di farina, una biga al 50% sarà di 500 g (500 g farina, 300 ml acqua, 5 g lievito). Impastiamo questi ingredienti 8 ore prima. Per l’impasto finale useremo poi 500 g farina, 300 ml acqua, 5 g lievito e 500 g di biga pronta. Otterremo una pizza leggera e digeribile! Con una biga al 75% useremo invece 750 g di preimpasto e solo 250 g di farina per l’impasto finale. Il sapore sarà più acidulo. Oltre alla percentuale di biga, ci sono altri accorgimenti per ottenere un buon risultato. Una corretta lavorazione dell’impasto è fondamentale. Dopo aver amalgamato gli ingredienti, è necessario lavorare l’impasto con le pieghe di rinforzo. Queste servono ad aumentare l’elasticità del glutine e a ottenere una maggiore alveolatura interna. Si consigliano almeno 3-4 pieghe a intervalli regolari durante la prima lievitazione. Anche la scelta della farina è importante. Le farine ad alta quota di proteine, come quelle di grano tenero tipo 0 e tipo 1, sono più indicate perché conferiscono maggiore forza e tenacità all’impasto. Meglio evitare farine con basso contenuto proteico. Se si utilizzano farine con un basso contenuto proteico (ad esempio farine di grano tenero tipo 00 con proteine inferiori al 10%), l’impasto ottenuto con la biga potrebbe presentare alcune problematiche: – Scarsa elasticità e tenacità dell’impasto: le proteine del glutine sono responsabili della struttura elastica e resistente dell’impasto. Con poca proteina l’impasto risulterà molle e poco lavorabile. – Difficoltà nel trattenere i gas prodotti dalla lievitazione: la scarsa forza glutinica non permette di intrappolare i gas in piccole bolle, creando una maglia alveolata. L’impasto tenderà a sgonfiarsi. – Maggiore difficoltà nella lavorazione: l’impasto molle e poco elastico sarà difficile da lavorare, piegare e stendere. Risulterà appiccicoso. – Prodotti finali dalla consistenza gommosa e pesante: il glutine scarso causa una struttura non alveolata e compatta nei prodotti finali dopo cottura, con conseguente pesantezza gastrica. – Conservabilità ridotta: la minor capacità di trattenere l’umidità porta a un raffermamento più rapido dei prodotti. Per quanto riguarda la lievitazione, il tempo ideale è di circa 8-12 ore a temperatura ambiente controllata. Un ambiente caldo-umido è l’ideale per attivare la fermentazione degli acidi e favorire la maturazione degli aromi. La lievitazione lenta esalta i profumi della biga. Infine, è bene ricordare che la biga va conservata in frigorifero e rinfrescata periodicamente con aggiunta di acqua e farina per mantenerne attivo il lievito. Una biga sana e ben conservata è alla base di prodotti fragranti e digeribili. In conclusione, dosando bene la biga si possono ottenere impasti digeribili e fragranti. Prova le percentuali di biga che preferisci per la tua pizza perfetta!
La pizza fritta: storia e curiosità
La pizza fritta, piatto della tradizione napoletana, è una delizia culinaria che si è evoluta nel corso degli anni, diventando un piatto tipico in tutta Italia. Si narra che la ricetta sia originariamente nata nel periodo della Seconda guerra mondiale, quando la pizza al forno a legna era diventata un lusso che pochi potevano permettersi. Per questo piatto, l’impasto di pizza ripiena viene immerso nell’olio bollente e fritto fino a farlo diventare dorato. La pizza, chiusa ai bordi, si gonfia come un palloncino, dando l’impressione di un pasto ricco e abbondante, anche con poca pasta. Secondo la tradizione, l’antenato della pizza fritta sono le “zeppolelle”, pizze fritte croccanti e condite con miele, nominate dal celebre poeta Giovanni Battista del Tufo già nel Cinquecento. Nel film “L’oro di Napoli”, con Sophia Loren, la pizza fritta viene presentata come un piatto venduto per le strade dai pizzaioli napoletani, che abitavano nei cosiddetti “bassi”, appartamenti piccoli che davano direttamente sulla via di passaggio. Era il vero inizio dello “street food” in versione popolare. La pizza fritta tradizionale è ripiena di ricotta e cicoli o ciccioli, pezzi di grasso di maiale scartati dai tagli pregiati. Tuttavia, oggi esistono numerose varianti di questa ricetta, che la rendono un piatto importante della cucina napoletana e italiana in generale. Tra le varianti più diffuse troviamo la pizza fritta con pomodoro, basilico e parmigiano, quella con la genovese e il ragù napoletano, ma anche versioni in bianco, con prosciutto cotto e mozzarella o provola, con salame e mozzarella, oppure con prosciutto cotto, mozzarella e pomodoro. Basilico o origano sono ingredienti che non possono mancare. La pizza fritta è diventata così popolare che ne troviamo diverse varianti in tutta Italia. In Sicilia e Calabria prende il nome di “calzone”, mentre in Puglia è conosciuta come “panzerotto”, la cui ricetta classica è semplicemente mozzarella, pomodoro, pepe nero e parmigiano. In Emilia-Romagna, invece, è diffusa con la denominazione di “gnocco fritto” o “crescentina” nel bolognese. Qui la tradizione vuole che venga servita vuota, senza condimento, insieme ai taglieri di salumi e formaggi, con prodotti tipici del territorio. L’ultima innovazione della ricetta tradizionale è rappresentata dai “coni di pizza fritta”, croccanti e dorati, ripieni di vari ingredienti a discrezione dello Chef. Di solito si riempiono con mozzarella e pomodorini, ma anche con salame e mozzarella, wurstel, ricotta, prosciutto cotto o crudo. Inoltre, esiste anche una versione dolce della pizza fritta, spesso condita con miele, nutella, crema di pistacchio e altri ingredienti dolci. In definitiva, la pizza fritta è una specialità culinaria molto amata in Italia, che ha subito diverse evoluzioni nel corso degli anni, arricchendosi di varianti e conquistando il palato di chiunque la assaggi.
Zeppoline fritte dolci
L’impasto fritto è una preparazione che ha radici antiche e che appartiene alla tradizione culinaria di molte culture. Essa consiste nell’immergere un impasto a base di farina e acqua in olio di semi bollente, fino a quando diventa dorato e croccante. Tra le varianti più famose di impasto fritto, ci sono le zeppoline napoletane, le chiacchiere, le frappe e le bugie. La storia dell’impasto fritto risale all’antica Roma, dove si preparavano delle frittelle di farina, latte e uova, che venivano fritte in olio bollente e poi ricoperte di miele. In epoca medievale, le frittelle divennero molto popolari in tutta Europa e venivano preparate in occasioni di festa come il Carnevale. Nel Rinascimento, le frittelle vennero arricchite con ingredienti come lo zucchero, il cioccolato e le spezie esotiche, dando vita a dolci ricchi e sfiziosi. In Italia, l’impasto fritto è particolarmente diffuso in alcune regioni come la Campania, dove viene preparato in molte varianti. Ecco la ricetta per preparare le mie zeppoline fritte ricoperte di zucchero: Ingredienti: – 1 kg di farina 00 – 675 ml di acqua – 15 g di lievito di birra fresco – 20 g di sale – 1 cucchiaio di olio extravergine di oliva Procedimento: 1. In una ciotola, sciogli il lievito di birra fresco nell’acqua a temperatura ambiente. 2. Aggiungi la farina 00, il sale e l’olio extravergine di oliva e impasta energicamente fino a ottenere un composto liscio ed omogeneo. 3. Copri la ciotola con un canovaccio e lascia riposare l’impasto in frigo per circa 40/60 minuti. 4. Trascorso il tempo di lievitazione, prendi l’impasto e dividi in 6 panetti da circa 270 g. 5. Fai lievitare i panetti in frigo fino al raddoppio (circa 2/3 ore). 6. Porziona i panetti in piccole palline da 20/25 g ciascuna e lavorale con le mani fino a ottenere delle palline lisce ed omogenee. Lasciale coperte da un canovaccio a temperatura ambiente per 30/40 minuti. 7. Friggile in olio di semi fino a quando diventano dorate e croccanti. Le zeppoline fritte ricoperte di zucchero sono un dolce goloso e irresistibile, che si presta ad essere gustato in diverse occasioni. Potete servirle come dessert dopo un pasto, come merenda o come spuntino durante una festa. In conclusione, l’impasto fritto rappresenta una tradizione culinaria che affonda le sue radici nella storia antica e che è stata tramandata di generazione in generazione. Le zeppoline fritte ricoperte di zucchero sono un esempio perfetto di come questa preparazione possa essere arricchita con fantasia e creatività, dando vita a dolci golosi e irresistibili.